di Paolo Attivissimo. Questo articolo vi arriva grazie alle
donazioni per il libro “Luna? Sì, ci siamo andati!".
Su Instagram è stato pubblicato questo spezzone di una conversazione fra il
giornalista britannico James Burke e alcuni astronauti del programma Apollo e
Gemini (Jim Lovell, Gene Cernan, James McDivitt, Harrison “Jack” Schmitt).
L’audio non è molto chiaro, per cui lo trascrivo qui:
LOVELL: ...Look, I’m busy over here, would you knead this for me? Which Borman
did to me that once!
BURKE: I heard a rumour that oxygen
masks [would] be useful on occasions like that.
CERNAN: They
were... they were... Admittedly they were used on Apollo 17. I used one.
LOVELL:
The thing with Gemini... You're lucky to have to use it for the face!
SCHMITT:
See, Jim, the most difficult part of it was detaching the sticky... material
from the body. And... and particularly if number two was free floating, and
that’s when you run the risk of number two hitting the fan! The
circulation...
LOVELL: Now, what NASA had done, I think
incorrectly, in their engineering, they put a glue on here that was a little
too... too gluey, too tight, and if you had any amount of hair at all there,
it just about killed yourself [incomprensibile]. So anyway...
In sintesi: Lovell sta spiegando a James Burke (storico giornalista
divulgatore della BBC, una sorta di Piero Angela britannico) il funzionamento
del sacchetto che ha in mano, che è un esemplare di
Fecal Collection Bag, ossia la “toilette” utilizzata dagli astronauti
per le missioni Apollo e in altre occasioni. L’imboccatura adesiva del
sacchetto andava applicata ai glutei in modo che le feci venissero raccolte
dentro il sacchetto, che aveva una rientranza nella quale era possibile
infilare un dito per agevolare il distacco delle feci dal corpo senza toccarle
direttamente (in assenza di peso manca appunto la gravità che normalmente
produce questo auspicabile distacco).
Una volta raccolte le feci, il sacchetto andava staccato dai glutei e richiuso
per evitare fuoriuscite, ma prima di richiuderlo era necessario inserire una
tavoletta di sostanza battericida (altrimenti le feci, conservate a bordo a
differenza dell’urina, avrebbero generato gas di fermentazione) e impastare il
tutto. Da qui la dichiarazione di Lovell “Scusa, qui ho da fare, ti spiace
impastare questo per me?”, e la precisazione che il collega Frank Borman lo
fece davvero una volta per lui (presumibilmente durante la missione
Apollo 8).
James Burke chiede se è vera la diceria che a volte gli astronauti usavano la
maschera per l’ossigeno durante questa procedura per non sentire gli odori, e
Cernan conferma di averla usata durante Apollo 17. Lovell precisa che a
bordo delle Gemini si era “fortunati a doverla usare per la faccia”,
con grande ilarità dei colleghi. Non sono sicuro di cosa intenda con questa
precisazione.
Interviene Harrison Schmitt, compagno di missione di Cernan in
Apollo 17, spiegando che
“la parte più difficile era staccare il materiale appiccicoso dal corpo” e aggiunge che se le feci fluttuavano libere c‘era il rischio che si
diffondessero in cabina per via della ventilazione forzata.
Number two è un eufemismo inglese per indicare le feci e
when the shit hits the fan è un modo di dire che indica un evento che
causa un grande e sgradevole scompiglio (come avverrebbe, appunto, nel caso di
escrementi lanciati contro un ventilatore acceso), e in questo caso Schmitt
sta giocando sul senso letterale delle parole, perché effettivamente le feci
degli astronauti avrebbero potuto colpire le ventole del sistema di
ventilazione di bordo, causandone lo spargimento per tutta la cabina.
Chiude lo spezzone Jim Lovell, che aggiunge un altro dettaglio della scarsa
efficacia e praticità del Fecal Collection Bag: l’adesivo usato era un
po’ troppo adesivo e quindi
“se avevi anche un minimo di peli lì, quasi ti uccidevi.”
Aspetti poco eroici e molto umani, ma raramente raccontati, di una serie di
missioni straordinarie.