di Paolo Attivissimo
Ha debuttato al Sundance Film Festival a Park City, nello Utah, il film Operation Avalanche, del canadese trentunenne Matt Johnson, che si preannuncia di grande interesse per chi segue le vicende del lunacomplottismo perché è in gran parte incentrato sulla falsificazione degli sbarchi lunari.
Secondo gli articoli pubblicati da TheStar e da The Guardian, Johnson e la sua troupe hanno “invaso sfacciatamente” le strutture della NASA, hanno fatto un “uso temerario delle riprese d’archivio delle missioni Apollo” e hanno costruito una suggestione “sorprendentemente convincente” dell’ipotesi di falsificazione.
La storia è ambientata alla fine degli anni Sessanta ed è un documentario all’interno di un documentario, con connotazioni al tempo stesso da thriller e da commedia miste a riprese artificialmente invecchiate ricorrendo alla desaturazione dei colori e all’introduzione della grana della pellicola in bianco e nero. I protagonisti sono lo stesso Johnson e Owen Williams, che interpretano il ruolo di due giovani agenti della CIA che fingono di essere cineasti e di star girando un documentario sui preparativi della NASA per il primo sbarco sulla Luna, quello di Apollo 11 a luglio del 1969.
In realtà i due stanno cercando di identificare una talpa sovietica all’interno della NASA, ma finiscono per scoprire che la NASA non è affatto pronta a far atterrare un uomo sulla Luna (il Modulo Lunare non funziona e non sarà pronto in tempo per mantenere la promessa di Kennedy di allunare entro la fine del decennio) e quindi vengono coinvolti in una cospirazione per falsificare lo sbarco per il pubblico televisivo.
C’è anche un cameo artificiale di Stanley Kubrick, il regista che secondo alcuni complottisti avrebbe creato le riprese dello sbarco sulla Luna e che in Operation Avalanche finisce per dare una mano importante alla messinscena senza rendersene conto. Inoltre, secondo le recensioni, ci sarebbe anche una visita (non si sa se reale o simulata) sul set di 2001 Odissea nello spazio, capolavoro dello stesso Kubrick.
Matt Johnson e il co-sceneggiatore Josh Boles dichiarano di non credere alle tesi di complotto intorno ad Apollo 11 ma di averle studiate. Johnson dice che non crede che questo film farà pensare alla gente che la NASA non è stata sulla Luna: semmai, dice, “farà discutere di queste specifiche questioni.” Staremo a vedere.
2016/01/25
2016/01/23
Il complotto sovietico scherzoso di Zond 5
di Paolo Attivissimo
Non tutte le cospirazioni hanno intenti ostili: è il caso, per esempio, della burla organizzata in gran segreto dai russi ai danni degli americani nel 1968.
La sonda Zond 5, lanciata dall’Unione Sovietica il 14 settembre 1968, è diretta verso la Luna. Formalmente si tratta di una sonda spaziale, ma è a tutti gli effetti un veicolo Soyuz, di quelli normalmente usati dai sovietici per portare un equipaggio, modificato per il volo teleguidato. Per questo volo sperimentale intorno alla Luna l’equipaggio è sostituito da alcuni animali (tartarughe, mosche, vermi e altro) e da un manichino contenente sensori per le radiazioni. Di fatto è una prova generale di un volo circumlunare con equipaggio. Gli americani sono al corrente delle dimensioni della “sonda” e sanno che potrebbe contenere un equipaggio, che diventerebbe il primo della storia a volare intorno alla Luna (la prima missione americana circumlunare, Apollo 8, deve ancora avvenire e avrà luogo a dicembre del 1968), ma i sovietici mantengono il tradizionale segreto sui dettagli della missione.
Durante questo volo viene perpetrato uno scherzo agli americani: prima del lancio, ai tecnici che stavano preparando la Zond 5 è stato chiesto di collegare con un cavo il ricevitore radio del veicolo al suo trasmettitore. Quando la sonda sta volando intorno alla Luna, il 18 settembre 1968, raggiungendo una distanza minima di 1950 chilometri, il cosmonauta Pavel Popovich trasmette da Terra verso la Zond 5 un annuncio a voce: “Il volo procede regolarmente; ci stiamo avvicinando alla superficie.”
Grazie al collegamento fra ricevitore e trasmettitore, le sue parole vengono ritrasmesse verso Terra dalla Zond 5 e vengono quindi ricevute anche dagli impianti di radioascolto spaziale americani oltre che da quelli russi, creando l’illusione che Popovich sia a bordo del veicolo spaziale sovietico. Le parole di Popovich creano stupore fino ai più alti livelli governativi statunitensi: l’astronauta Frank Borman, consulente spaziale del presidente americano Nixon, riceve una telefonata dal presidente, che chiede come mai un sovietico sta trasmettendo dalla Luna.
Circa un mese dopo, Borman si reca in visita in Unione Sovietica ed è proprio Popovich ad accoglierlo in aeroporto. Nel frattempo gli americani hanno capito che il messaggio dalla Luna era una finzione: Borman, appena sceso dall’aereo, gli mostra scherzosamente il pugno e dice a Popovich “Ehi, tu, burlone spaziale!”.
Fonti: NASA; The First Soviet Cosmonaut Team, di Colin Burgess e Rex Hall (2009), pag. 318, che cita Voice of Russia, “Space exploration is a lifelong job” (2007).
Non tutte le cospirazioni hanno intenti ostili: è il caso, per esempio, della burla organizzata in gran segreto dai russi ai danni degli americani nel 1968.
La sonda Zond 5, lanciata dall’Unione Sovietica il 14 settembre 1968, è diretta verso la Luna. Formalmente si tratta di una sonda spaziale, ma è a tutti gli effetti un veicolo Soyuz, di quelli normalmente usati dai sovietici per portare un equipaggio, modificato per il volo teleguidato. Per questo volo sperimentale intorno alla Luna l’equipaggio è sostituito da alcuni animali (tartarughe, mosche, vermi e altro) e da un manichino contenente sensori per le radiazioni. Di fatto è una prova generale di un volo circumlunare con equipaggio. Gli americani sono al corrente delle dimensioni della “sonda” e sanno che potrebbe contenere un equipaggio, che diventerebbe il primo della storia a volare intorno alla Luna (la prima missione americana circumlunare, Apollo 8, deve ancora avvenire e avrà luogo a dicembre del 1968), ma i sovietici mantengono il tradizionale segreto sui dettagli della missione.
Durante questo volo viene perpetrato uno scherzo agli americani: prima del lancio, ai tecnici che stavano preparando la Zond 5 è stato chiesto di collegare con un cavo il ricevitore radio del veicolo al suo trasmettitore. Quando la sonda sta volando intorno alla Luna, il 18 settembre 1968, raggiungendo una distanza minima di 1950 chilometri, il cosmonauta Pavel Popovich trasmette da Terra verso la Zond 5 un annuncio a voce: “Il volo procede regolarmente; ci stiamo avvicinando alla superficie.”
Grazie al collegamento fra ricevitore e trasmettitore, le sue parole vengono ritrasmesse verso Terra dalla Zond 5 e vengono quindi ricevute anche dagli impianti di radioascolto spaziale americani oltre che da quelli russi, creando l’illusione che Popovich sia a bordo del veicolo spaziale sovietico. Le parole di Popovich creano stupore fino ai più alti livelli governativi statunitensi: l’astronauta Frank Borman, consulente spaziale del presidente americano Nixon, riceve una telefonata dal presidente, che chiede come mai un sovietico sta trasmettendo dalla Luna.
Circa un mese dopo, Borman si reca in visita in Unione Sovietica ed è proprio Popovich ad accoglierlo in aeroporto. Nel frattempo gli americani hanno capito che il messaggio dalla Luna era una finzione: Borman, appena sceso dall’aereo, gli mostra scherzosamente il pugno e dice a Popovich “Ehi, tu, burlone spaziale!”.
Fonti: NASA; The First Soviet Cosmonaut Team, di Colin Burgess e Rex Hall (2009), pag. 318, che cita Voice of Russia, “Space exploration is a lifelong job” (2007).
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2016/01/18
Complotti sovietici: il disastro sfiorato e taciuto della Soyuz 5 (1969)
di Paolo Attivissimo. L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/01/23.
Si parla tanto di fantasiosi e improbabili complotti statunitensi per simulare lo sbarco sulla Luna, ma ci si dimentica spesso dei veri complotti: quelli per insabbiare i fallimenti e i dettagli imbarazzanti delle missioni spaziali, specialmente (ma non solo) da parte russa. Questa è la storia di uno di questi complotti reali, tratta dal mio e-book Almanacco dello Spazio.
Il 16 gennaio 1969, con la gara sovietica e americana per raggiungere la Luna nel massimo fermento, l’Unione Sovietica mette a segno una missione congiunta spettacolare. Nei giorni precedenti ha lanciato in orbita intorno alla Terra due veicoli con equipaggio, la Soyuz 4 (con a bordo un solo cosmonauta, Vladimir Shatalov) e la Soyuz 5 (che trasporta Boris Volynov, Aleksei Yeliseyev e Yevgeny Khrunov), e ora la Soyuz 4 attracca alla Soyuz 5 con una manovra inizialmente automatica e successivamente manuale.
I due veicoli spaziali vengono interconnessi con alimentazione, comunicazioni e comandi e formano per quattro ore e mezza quello che la stampa sovietica definisce un po’ iperbolicamente “la prima stazione cosmica sperimentale al mondo”. Come vedete dall’immagine qui accanto, anche la stampa italiana (perlomeno quella comunista) non si discosta molto da questa descrizione epica, anche perché non ci sono altre fonti d’informazione a parte quelle sovietiche, controllatissime e censuratissime.
Retorica a parte, è comunque il primo attracco fra due veicoli spaziali entrambi dotati di equipaggio nella storia dell’astronautica. C’erano stati attracchi precedenti, ma soltanto fra veicoli senza equipaggio oppure fra uno con equipaggio e uno senza.
Dopo l’attracco, due dei cosmonauti della Soyuz 5, Yevgeny Khrunov e Alexei Yeliseyev, si trasferiscono alla Soyuz 4 effettuando una passeggiata spaziale, che viene registrata dalle telecamere di bordo: è il primo trasferimento extraveicolare di un equipaggio da un veicolo spaziale a un altro. Un altro primato, insomma, conquistato dai russi. Queste manovre servono a collaudare le tecniche di attracco e trasbordo che verranno usate per lo sbarco sulla Luna che i sovietici, in gran segreto, stanno tentando di realizzare.
La Soyuz 4 rientra a terra senza problemi il 17 gennaio con Shatalov, Khrunov e Yeliseyev (immagine qui accanto, tratta da Spacefacts). La Soyuz 5 resta in orbita fino al giorno successivo, pilotata dal trentaquattrenne Boris Volynov.
Fin qui tutto bene, insomma. Ma al momento del rientro della Soyuz 5 succede di tutto.
Il modulo di servizio, che sta sul retro del veicolo di Volynov, non si sgancia correttamente dalla capsula di rientro dopo l’inizio della manovra di discesa. Rimane attaccato alla capsula, e siccome è la parte del veicolo che offre la maggiore resistenza aerodinamica si dispone spontaneamente dietro, mettendo la capsula e Boris Volynov davanti. Il problema è che questo assetto è il contrario di quello necessario per sopravvivere al rientro, perché la Soyuz a questo punto ha lo scudo termico dietro anziché davanti.
Il calore intensissimo del rientro agisce quindi sulla parte meno protetta della capsula: Volynov, invece di essere schiacciato contro il proprio sedile dalla decelerazione, viene spinto in senso contrario, contro le cinture di sicurezza che lo trattengono, e assiste impotente alla progressiva combustione delle guarnizioni del portello, che riempiono di fumo la capsula. Il cosmonauta, oltretutto, non ha una tuta pressurizzata che lo protegga.
I tecnici al Controllo Missione sovietico, informati via radio da Volynov della situazione, hanno già capito che non c’è nulla da fare e uno di loro si toglie il cappello, vi mette dentro tre rubli e lo passa agli altri per iniziare la colletta per l’imminente vedova.
Fortunatamente il calore esterno fonde i collegamenti fra il modulo di servizio e la capsula di rientro poco prima che ceda il portello e quindi il modulo di servizio si sgancia violentemente, permettendo alla capsula di riprendere il proprio assetto normale: il suo scudo termico, finalmente in posizione corretta, assorbe il calore prodotto dall’attraversamento dell’atmosfera e la capsula decelera, ma lo fa brutalmente, sottoponendo Volynov a ben 9 g, perché i razzi di manovra, che normalmente dovrebbero ridurre la decelerazione imponendo un assetto che genera portanza e quindi produce una planata, non funzionano: il loro propellente è stato esaurito dal computer di bordo nel vano tentativo di orientare correttamente la capsula mentre era ancora vincolata al modulo di servizio.
Non è finita: i cavi del paracadute della capsula si ingarbugliano parzialmente e i razzi che servono per la frenata finale sono danneggiati dal rientro e non funzionano, per cui l’impatto con il suolo è durissimo, anche se la neve lo smorza lievemente: Volynov viene sbalzato dal proprio sedile e si spezza alcuni denti. Oltretutto la capsula è atterrata nei monti Urali, a centinaia di chilometri dal punto previsto in Kazakistan, per cui i soccorsi non possono arrivare prontamente. Fuori la temperatura è −38°C e nella capsula non c’è riscaldamento, ma Volynov viene raggiunto dai soccorritori circa un’ora dopo il suo fortunoso atterraggio. Il disastro sfiorato verrà tenuto segreto dalle autorità sovietiche fino al 1997.
Le peripezie di Volynov non sono ancora finite: pochi giorni dopo, il 22 gennaio, sarà coinvolto in un attentato al premier sovietico Brezhnev. Ma questa è un’altra storia, che trovate nell’Almanacco dello Spazio.
Fonti: Soyuz 5's Flaming Return di James Oberg (2002) con aggiornamento correttivo di Oberg (2008); Astronautix; Sven Grahn; Soyuz: A Universal Spacecraft, Rex Hall e David Shayler, p. 155-156; Rockets and People, Volume 4, Boris Chertok, p. 187; Spacefacts; Disasters and Accidents in Manned Spaceflights, David Shayler, p. 357-358; Il mistero dei cosmonauti perduti, Luca Boschini, pag. 160; The First Soviet Cosmonaut Team, Colin Burgess e Rex Hall (2009), pag. 287-290. Altre fonti sono riportate nell’aggiornamento qui sotto.
Dopo la pubblicazione iniziale del mio articolo sul Disinformatico i lettori hanno segnalato versioni contrastanti delle azioni di Volynov dopo l’atterraggio. In particolare sono emersi forti dubbi sulla versione che avevo descritto inizialmente basandomi sulle fonti solitamente autorevoli: secondo questa versione, Volynov si sarebbe allontanato dalla capsula e avrebbe camminato per vari chilometri, nel gelo e con la bocca sanguinante per i denti rotti, fino a trovare rifugio in casa di un contadino e i soccorritori sarebbero arrivati varie ore dopo e avrebbero trovato la capsula vuota, riuscendo poi a rintracciare Volynov seguendo le sue impronte e le macchie di sangue nella neve. Ma sono emerse interviste nelle quali Volynov smentisce questa versione. Di conseguenza cui ho ampliato la mia ricerca: ne riassumo qui i risultati citando le varie fonti che ho utilizzato e ringraziando in particolare Giovanni Pracanica per il suo contributo alla ricerca.
James Oberg, Soyuz 5's Flaming Return (2002): “Ground searchers didn't know that he was alive, but radar had indicated that the capsule was far off course. Many hours later, helicopters spotted the downed spacecraft and landed nearby. The rescuers were unsure whether they were on a rescue mission or would recover a body. At the landing site, they found the capsule's hatch open -- no one inside, and no trace of the cosmonaut. Volynov had quickly realized out that he would die in the mid-winter cold if he stayed where he was, so he set out on foot towards a distant vertical line of smoke in the sky. He had landed just before noon, and the weather was clear. Only a few kilometers away, he found the hut of peasants who took him in and kept him warm until searchers, following his footprints and the bloody spots where he had spit in the snow, found him.”
Sempre Oberg, nel libro Star-Crossed Orbits (2002), pagina 190: “The impact force tore him from his seat and threw him across the cabin, knocking out several of his upper front teeth. He tasted blood filling his mouth... Many hours later, helicopters spotted the capsule’s parachute and landed nearby... They found the capsule’s hatch open, nobody inside, and no trace of the cosmonaut. Volynov had quickly figured out that he would die in the midwinter cold if he stayed where he was, so he set out on foot toward a distant vertical line of smoke in the sky. It was just before noon when he landed, and the weather was clear. He found the hut of some peasants only a few kilometers away, and they took him in and kept him warm until searchers followed his footprints – and the bloody spots where he had been spitting – in the snow”.
La stessa versione è stata pubblicata da Oberg nel 1999 sul suo sito e in una rivista di settore, Launchspace, nell’articolo Secrets of Soyuz (PDF). Oberg ne parla anche in questo articolo su NasaSpaceflight del 2008.
Tuttavia Oberg stesso, in una nota non datata ma risalente almeno al 4 luglio 2008 (data in cui è stata vista per la prima e unica volta da Archive.org), ha smentito questa sua versione: “In October 2005 I met with Volynov for more than an hour at the cosmonaut training center outside of Moscow. He showed a recent made-for-Moscow TV movie reenactment of his adventure, and narrated and discussed it, remarking on where it was accurate and where it had been over-dramatised. [...] Volynov did say that my version of his post-landing survival was not correct. Long ago, while in the US Air Force, I had learned of an embassy gossip account of a mid-winter off-course landing of a cosmonaut who had had to hike a few miles to a nearby settlement to survive. At the time, I knew of no solo winter off-course Soviet manned spaceflight landing, and filed it away as ‘garble’ or even ‘tall-tale’. Later, when I learned that Soyuz-5 had in fact performed just such a feat, and added odin and odin together to get dva, and postulated that the story was about Volynov. But he told me it wasn’t – and gave me another even more miraculous account of how he had avoided freezing to death within hours back in January 1969.” Nella stessa nota promette una nuova pubblicazione sull’episodio (“That story will be in my new published account”), ma non ne ho trovato traccia.
Astronautix: “The damage to the capsule resulted in a failure of the soft-landing rockets. The landing was harder than usual and Volynov broke his teeth. The capsule was recovered 2 km SW of Kustani, far short of its aim point, on January 18, 1969 at 07:58 GMT.”
Sven Grahn si limita a linkare l’articolo di Oberg.
Rockets and People di Boris Chertok: non parla di della fase post-atterraggio.
Spacefacts: “On page 274 of the book IN THE SHADOW OF THE MOON, Boris Volynov is quoted as saying he stayed inside the capsule after landing with a broken jaw. It was extremly cold and he only had a thin tracksuit on. There were no buildings for 60 kilometers around him so he waited one hour. Parachutists were the first to arrive.”
Il libro Soyuz: A Universal Spacecraft dice: “Volynov… knew that he would die if he stayed inside the capsule…. he spotted a vertical line of smoke in the distance; and after walking several kilometers he found a peasant hut, where the occupants welcomed him and kept him warm until the rescue team arrived… At the landing site, search teams located the DM and, to their surprise, found it empty; but they finally found Volynov by tracking the trail of blood in the snow where he had spat.” La nota a pié pagina cita l’articolo di Oberg.
Il libro Disasters and Accidents in Manned Spaceflights di David J. Shayler riporta: “...the parachutes deployed on [sic] partially... A failure in the soft-landing rockets in the base of the DM caused a harder than normal landing, almost wrecking the capsule. When the search crews found Soyuz 5 it was empty. Volynov was found, with several broken teeth, in a nearby peasant hut trying to keep warm while awaiting his rescuers”.
Il libro Il mistero dei cosmonauti perduti di Luca Boschini (2013) dice, a pagina 161, che “La leggenda vuole che a questo punto il cosmonauta fosse uscito dalla capsula, indossando la sola divisa da pilota, e avesse camminato nella neve per chilometri fino a raggiungere un’abitazione, dove sarebbe stato soccorso e medicato. In realtà, lo stesso Volynov in un’intervista nel 2001 con lo scrittore Bert Vis ammise che fuori dalla capsula tutto intorno non si vedeva che una distesa innevata e coi vestiti leggeri che aveva indosso non sarebbe sopravvissuto più di qualche minuto: perciò aveva deciso di starsene chiuso nella capsula e sperare nei soccorsi, che fortunatamente lo ritrovarono in meno di un’ora.”
L’intervista a Bert Vis citata da Boschini è citata anche nel libro The First Soviet Cosmonaut Team, di Colin Burgess e Rex Hall (2009), a pag. 290: “The unexpectedly heavy impact propelled Volynov forward against his harness with such force that it gave way, resulting in him smashing his jaw and shoulders against the instrument panel, snapping off several upper teeth at the roots. Soyuz 5's re-entry problems had caused the cosmonaut to land some 400 miles off course, and as he sat in excruciating pain trying to assess the damage to his face he could hear the hot exterior of his charred spacecraft popping and hissing in the freezing cold outside. Bruised and bloody, Volynov knew he needed some urgent medical attention, but he was also aware of the fact that he was only wearing a thin woollen tracksuit and it was somewhere around -38°C outside. There were later misleading (and often repeated) reports that as he sat there he saw some smoke from a nearby farmhouse chimney and made his way across to seek shelter and assistance. However, Volynov emphatically denied this in an interview with Bert Vis in London in May 2001, saying it was completely deserted and freezing cold where he landed, emphasizing that to have left the spacecraft would have been suicidal. “There was nobody to help. It was two hundred kilometres from Kustanay [Kazakhstan] ... no settlements at all... no farm... maybe sixty or eighty kilometres there was nothing. I couldn't go anywhere as it was minus 38 degrees and I was wearing that suit. I waited inside the capsule'' [2]. It took almost an hour for a rescue aircraft to locate and reach the Soyuz 5 spacecraft, although Volynov could see the aircraft in the distance through his window, doing searching sweeps of the area. They finally spotted his parachute and flew low over the downed spacecraft. Four recovery parachutists then leapt out in order to check on his condition and offer initial assistance. Radio links were quickly established and, soon after, the helicopters arrived.” Il numero “[2]” è appunto un riferimento all’intervista di Vis a Volynov.
In questo video Volynov stesso racconta la propria esperienza (da 13:30 circa) confermando i 9 g di decelerazione e i -38°C all’atterraggio, dicendo che la città più vicina era a 200 chilometri e che indossava soltanto una tuta di volo di lana. Non parla di essere uscito dalla capsula e di essersi incamminato, ma dice di essere stato soccorso dopo qualche tempo e di essere stato ritrovato dalla squadra di soccorso.
In questo video, a circa 28 minuti dall’inizio, Volynov racconta in russo la fase dopo l’atterraggio. Il video, in una ricostruzione, mostra che viene soccorso vicino alla capsula, senza menzionare alcun percorso a piedi. Il video, stando alla descrizione su Youtube tradotta da Google Translate, s’intitola Волынов. Падение из космоса (“Volynov. Caduta dallo spazio”) è della casa di produzione Ostankino, risale al 2008, fa parte della serie Тайны века (“Segreti del secolo”) ed è diretto da Alexander Gureshidze.
In questa intervista in russo, datata 2010, Volynov rievoca la propria disavventura, confermando i danni ai denti ma senza accennare ad alcuna uscita dalla capsula per raggiungere abitazioni.
La serie di documentari Secret Space Escapes ha in programma una puntata dedicata all’incidente di Volynov; aggiornerò ulteriormente questo articolo non appena l’avrò vista.
Si parla tanto di fantasiosi e improbabili complotti statunitensi per simulare lo sbarco sulla Luna, ma ci si dimentica spesso dei veri complotti: quelli per insabbiare i fallimenti e i dettagli imbarazzanti delle missioni spaziali, specialmente (ma non solo) da parte russa. Questa è la storia di uno di questi complotti reali, tratta dal mio e-book Almanacco dello Spazio.
Il 16 gennaio 1969, con la gara sovietica e americana per raggiungere la Luna nel massimo fermento, l’Unione Sovietica mette a segno una missione congiunta spettacolare. Nei giorni precedenti ha lanciato in orbita intorno alla Terra due veicoli con equipaggio, la Soyuz 4 (con a bordo un solo cosmonauta, Vladimir Shatalov) e la Soyuz 5 (che trasporta Boris Volynov, Aleksei Yeliseyev e Yevgeny Khrunov), e ora la Soyuz 4 attracca alla Soyuz 5 con una manovra inizialmente automatica e successivamente manuale.
Credit: Gianluca Atti |
Retorica a parte, è comunque il primo attracco fra due veicoli spaziali entrambi dotati di equipaggio nella storia dell’astronautica. C’erano stati attracchi precedenti, ma soltanto fra veicoli senza equipaggio oppure fra uno con equipaggio e uno senza.
Dopo l’attracco, due dei cosmonauti della Soyuz 5, Yevgeny Khrunov e Alexei Yeliseyev, si trasferiscono alla Soyuz 4 effettuando una passeggiata spaziale, che viene registrata dalle telecamere di bordo: è il primo trasferimento extraveicolare di un equipaggio da un veicolo spaziale a un altro. Un altro primato, insomma, conquistato dai russi. Queste manovre servono a collaudare le tecniche di attracco e trasbordo che verranno usate per lo sbarco sulla Luna che i sovietici, in gran segreto, stanno tentando di realizzare.
La Soyuz 4 rientra a terra senza problemi il 17 gennaio con Shatalov, Khrunov e Yeliseyev (immagine qui accanto, tratta da Spacefacts). La Soyuz 5 resta in orbita fino al giorno successivo, pilotata dal trentaquattrenne Boris Volynov.
Fin qui tutto bene, insomma. Ma al momento del rientro della Soyuz 5 succede di tutto.
Il modulo di servizio, che sta sul retro del veicolo di Volynov, non si sgancia correttamente dalla capsula di rientro dopo l’inizio della manovra di discesa. Rimane attaccato alla capsula, e siccome è la parte del veicolo che offre la maggiore resistenza aerodinamica si dispone spontaneamente dietro, mettendo la capsula e Boris Volynov davanti. Il problema è che questo assetto è il contrario di quello necessario per sopravvivere al rientro, perché la Soyuz a questo punto ha lo scudo termico dietro anziché davanti.
Il calore intensissimo del rientro agisce quindi sulla parte meno protetta della capsula: Volynov, invece di essere schiacciato contro il proprio sedile dalla decelerazione, viene spinto in senso contrario, contro le cinture di sicurezza che lo trattengono, e assiste impotente alla progressiva combustione delle guarnizioni del portello, che riempiono di fumo la capsula. Il cosmonauta, oltretutto, non ha una tuta pressurizzata che lo protegga.
I tecnici al Controllo Missione sovietico, informati via radio da Volynov della situazione, hanno già capito che non c’è nulla da fare e uno di loro si toglie il cappello, vi mette dentro tre rubli e lo passa agli altri per iniziare la colletta per l’imminente vedova.
Fortunatamente il calore esterno fonde i collegamenti fra il modulo di servizio e la capsula di rientro poco prima che ceda il portello e quindi il modulo di servizio si sgancia violentemente, permettendo alla capsula di riprendere il proprio assetto normale: il suo scudo termico, finalmente in posizione corretta, assorbe il calore prodotto dall’attraversamento dell’atmosfera e la capsula decelera, ma lo fa brutalmente, sottoponendo Volynov a ben 9 g, perché i razzi di manovra, che normalmente dovrebbero ridurre la decelerazione imponendo un assetto che genera portanza e quindi produce una planata, non funzionano: il loro propellente è stato esaurito dal computer di bordo nel vano tentativo di orientare correttamente la capsula mentre era ancora vincolata al modulo di servizio.
Boris Volynov |
Le peripezie di Volynov non sono ancora finite: pochi giorni dopo, il 22 gennaio, sarà coinvolto in un attentato al premier sovietico Brezhnev. Ma questa è un’altra storia, che trovate nell’Almanacco dello Spazio.
Fonti: Soyuz 5's Flaming Return di James Oberg (2002) con aggiornamento correttivo di Oberg (2008); Astronautix; Sven Grahn; Soyuz: A Universal Spacecraft, Rex Hall e David Shayler, p. 155-156; Rockets and People, Volume 4, Boris Chertok, p. 187; Spacefacts; Disasters and Accidents in Manned Spaceflights, David Shayler, p. 357-358; Il mistero dei cosmonauti perduti, Luca Boschini, pag. 160; The First Soviet Cosmonaut Team, Colin Burgess e Rex Hall (2009), pag. 287-290. Altre fonti sono riportate nell’aggiornamento qui sotto.
2016/01/23
Dopo la pubblicazione iniziale del mio articolo sul Disinformatico i lettori hanno segnalato versioni contrastanti delle azioni di Volynov dopo l’atterraggio. In particolare sono emersi forti dubbi sulla versione che avevo descritto inizialmente basandomi sulle fonti solitamente autorevoli: secondo questa versione, Volynov si sarebbe allontanato dalla capsula e avrebbe camminato per vari chilometri, nel gelo e con la bocca sanguinante per i denti rotti, fino a trovare rifugio in casa di un contadino e i soccorritori sarebbero arrivati varie ore dopo e avrebbero trovato la capsula vuota, riuscendo poi a rintracciare Volynov seguendo le sue impronte e le macchie di sangue nella neve. Ma sono emerse interviste nelle quali Volynov smentisce questa versione. Di conseguenza cui ho ampliato la mia ricerca: ne riassumo qui i risultati citando le varie fonti che ho utilizzato e ringraziando in particolare Giovanni Pracanica per il suo contributo alla ricerca.
James Oberg, Soyuz 5's Flaming Return (2002): “Ground searchers didn't know that he was alive, but radar had indicated that the capsule was far off course. Many hours later, helicopters spotted the downed spacecraft and landed nearby. The rescuers were unsure whether they were on a rescue mission or would recover a body. At the landing site, they found the capsule's hatch open -- no one inside, and no trace of the cosmonaut. Volynov had quickly realized out that he would die in the mid-winter cold if he stayed where he was, so he set out on foot towards a distant vertical line of smoke in the sky. He had landed just before noon, and the weather was clear. Only a few kilometers away, he found the hut of peasants who took him in and kept him warm until searchers, following his footprints and the bloody spots where he had spit in the snow, found him.”
Sempre Oberg, nel libro Star-Crossed Orbits (2002), pagina 190: “The impact force tore him from his seat and threw him across the cabin, knocking out several of his upper front teeth. He tasted blood filling his mouth... Many hours later, helicopters spotted the capsule’s parachute and landed nearby... They found the capsule’s hatch open, nobody inside, and no trace of the cosmonaut. Volynov had quickly figured out that he would die in the midwinter cold if he stayed where he was, so he set out on foot toward a distant vertical line of smoke in the sky. It was just before noon when he landed, and the weather was clear. He found the hut of some peasants only a few kilometers away, and they took him in and kept him warm until searchers followed his footprints – and the bloody spots where he had been spitting – in the snow”.
La stessa versione è stata pubblicata da Oberg nel 1999 sul suo sito e in una rivista di settore, Launchspace, nell’articolo Secrets of Soyuz (PDF). Oberg ne parla anche in questo articolo su NasaSpaceflight del 2008.
Tuttavia Oberg stesso, in una nota non datata ma risalente almeno al 4 luglio 2008 (data in cui è stata vista per la prima e unica volta da Archive.org), ha smentito questa sua versione: “In October 2005 I met with Volynov for more than an hour at the cosmonaut training center outside of Moscow. He showed a recent made-for-Moscow TV movie reenactment of his adventure, and narrated and discussed it, remarking on where it was accurate and where it had been over-dramatised. [...] Volynov did say that my version of his post-landing survival was not correct. Long ago, while in the US Air Force, I had learned of an embassy gossip account of a mid-winter off-course landing of a cosmonaut who had had to hike a few miles to a nearby settlement to survive. At the time, I knew of no solo winter off-course Soviet manned spaceflight landing, and filed it away as ‘garble’ or even ‘tall-tale’. Later, when I learned that Soyuz-5 had in fact performed just such a feat, and added odin and odin together to get dva, and postulated that the story was about Volynov. But he told me it wasn’t – and gave me another even more miraculous account of how he had avoided freezing to death within hours back in January 1969.” Nella stessa nota promette una nuova pubblicazione sull’episodio (“That story will be in my new published account”), ma non ne ho trovato traccia.
Astronautix: “The damage to the capsule resulted in a failure of the soft-landing rockets. The landing was harder than usual and Volynov broke his teeth. The capsule was recovered 2 km SW of Kustani, far short of its aim point, on January 18, 1969 at 07:58 GMT.”
Sven Grahn si limita a linkare l’articolo di Oberg.
Rockets and People di Boris Chertok: non parla di della fase post-atterraggio.
Spacefacts: “On page 274 of the book IN THE SHADOW OF THE MOON, Boris Volynov is quoted as saying he stayed inside the capsule after landing with a broken jaw. It was extremly cold and he only had a thin tracksuit on. There were no buildings for 60 kilometers around him so he waited one hour. Parachutists were the first to arrive.”
Il libro Soyuz: A Universal Spacecraft dice: “Volynov… knew that he would die if he stayed inside the capsule…. he spotted a vertical line of smoke in the distance; and after walking several kilometers he found a peasant hut, where the occupants welcomed him and kept him warm until the rescue team arrived… At the landing site, search teams located the DM and, to their surprise, found it empty; but they finally found Volynov by tracking the trail of blood in the snow where he had spat.” La nota a pié pagina cita l’articolo di Oberg.
Il libro Disasters and Accidents in Manned Spaceflights di David J. Shayler riporta: “...the parachutes deployed on [sic] partially... A failure in the soft-landing rockets in the base of the DM caused a harder than normal landing, almost wrecking the capsule. When the search crews found Soyuz 5 it was empty. Volynov was found, with several broken teeth, in a nearby peasant hut trying to keep warm while awaiting his rescuers”.
Il libro Il mistero dei cosmonauti perduti di Luca Boschini (2013) dice, a pagina 161, che “La leggenda vuole che a questo punto il cosmonauta fosse uscito dalla capsula, indossando la sola divisa da pilota, e avesse camminato nella neve per chilometri fino a raggiungere un’abitazione, dove sarebbe stato soccorso e medicato. In realtà, lo stesso Volynov in un’intervista nel 2001 con lo scrittore Bert Vis ammise che fuori dalla capsula tutto intorno non si vedeva che una distesa innevata e coi vestiti leggeri che aveva indosso non sarebbe sopravvissuto più di qualche minuto: perciò aveva deciso di starsene chiuso nella capsula e sperare nei soccorsi, che fortunatamente lo ritrovarono in meno di un’ora.”
L’intervista a Bert Vis citata da Boschini è citata anche nel libro The First Soviet Cosmonaut Team, di Colin Burgess e Rex Hall (2009), a pag. 290: “The unexpectedly heavy impact propelled Volynov forward against his harness with such force that it gave way, resulting in him smashing his jaw and shoulders against the instrument panel, snapping off several upper teeth at the roots. Soyuz 5's re-entry problems had caused the cosmonaut to land some 400 miles off course, and as he sat in excruciating pain trying to assess the damage to his face he could hear the hot exterior of his charred spacecraft popping and hissing in the freezing cold outside. Bruised and bloody, Volynov knew he needed some urgent medical attention, but he was also aware of the fact that he was only wearing a thin woollen tracksuit and it was somewhere around -38°C outside. There were later misleading (and often repeated) reports that as he sat there he saw some smoke from a nearby farmhouse chimney and made his way across to seek shelter and assistance. However, Volynov emphatically denied this in an interview with Bert Vis in London in May 2001, saying it was completely deserted and freezing cold where he landed, emphasizing that to have left the spacecraft would have been suicidal. “There was nobody to help. It was two hundred kilometres from Kustanay [Kazakhstan] ... no settlements at all... no farm... maybe sixty or eighty kilometres there was nothing. I couldn't go anywhere as it was minus 38 degrees and I was wearing that suit. I waited inside the capsule'' [2]. It took almost an hour for a rescue aircraft to locate and reach the Soyuz 5 spacecraft, although Volynov could see the aircraft in the distance through his window, doing searching sweeps of the area. They finally spotted his parachute and flew low over the downed spacecraft. Four recovery parachutists then leapt out in order to check on his condition and offer initial assistance. Radio links were quickly established and, soon after, the helicopters arrived.” Il numero “[2]” è appunto un riferimento all’intervista di Vis a Volynov.
In questo video Volynov stesso racconta la propria esperienza (da 13:30 circa) confermando i 9 g di decelerazione e i -38°C all’atterraggio, dicendo che la città più vicina era a 200 chilometri e che indossava soltanto una tuta di volo di lana. Non parla di essere uscito dalla capsula e di essersi incamminato, ma dice di essere stato soccorso dopo qualche tempo e di essere stato ritrovato dalla squadra di soccorso.
In questo video, a circa 28 minuti dall’inizio, Volynov racconta in russo la fase dopo l’atterraggio. Il video, in una ricostruzione, mostra che viene soccorso vicino alla capsula, senza menzionare alcun percorso a piedi. Il video, stando alla descrizione su Youtube tradotta da Google Translate, s’intitola Волынов. Падение из космоса (“Volynov. Caduta dallo spazio”) è della casa di produzione Ostankino, risale al 2008, fa parte della serie Тайны века (“Segreti del secolo”) ed è diretto da Alexander Gureshidze.
In questa intervista in russo, datata 2010, Volynov rievoca la propria disavventura, confermando i danni ai denti ma senza accennare ad alcuna uscita dalla capsula per raggiungere abitazioni.
La serie di documentari Secret Space Escapes ha in programma una puntata dedicata all’incidente di Volynov; aggiornerò ulteriormente questo articolo non appena l’avrò vista.
2016/01/12
Buon compleanno, Progettista Capo!
di Paolo Attivissimo
È il 12 gennaio 1907 (30 dicembre 1906 nel calendario giuliano): nasce a Zhitomir, in quella che oggi è Ucraina ma allora era un governatorato dell’Impero Russo, Sergei Pavlovich Korolev (Серге́й Па́влович Королёв; pronuncia). Diventerà il principale artefice del programma spaziale sovietico, portandolo a una serie ineguagliata di primati, ma non potrà mai vantarsene pubblicamente.
Da giovane studia aeronautica a Mosca sotto la guida di Andrei Tupolev, si qualifica come pilota e lancia, nel 1933, il primo razzo a propellente liquido in Unione Sovietica. Ma durante una delle tante purghe ordinate da Stalin viene arrestato e condannato ingiustamente a dieci anni di lavori forzati nel gulag di Kolyma, dove perde tutti i denti e si frattura la mandibola.
Viene trasferito in un carcere a Mosca dopo cinque mesi di gulag e passa cinque anni a lavorare a progetti di aerei e razzi insieme ad altri ingegneri incarcerati. Nel 1945, però, viene nominato colonnello dell’Armata Rossa e viene spedito in Germania: una svolta repentina dovuta al fatto che servono le sue competenze per decifrare i razzi V2 tedeschi che l’esercito russo è riuscito a catturare (il loro progettista, Wernher Von Braun, si è arreso agli americani, che se lo tengono stretto).
Korolev impara in fretta: è suo il primo missile balistico intercontinentale al mondo, l’R-7; sono opera sua il primo satellite artificiale (lo Sputnik 1), il primo cane nello spazio, il primo uomo nello spazio, il primo equipaggio multiplo, la prima donna nello spazio, la prima passeggiata spaziale, il primo satellite spia sovietico, le prime sonde lunari e interplanetarie e il gigantesco razzo N-1 concepito per portare un russo sulla Luna. Tutto progettato e costruito con risorse tecniche ed economiche ridotte all’osso, in un regime di segretezza e paranoia politica senza pari.
Il suo nome resterà un segreto di stato fino alla sua morte nel 1966, a 59 anni, dovuta alle inattese complicazioni di un intervento chirurgico di routine; prima di allora verrà sempre citato ufficialmente soltanto come il Progettista Capo. La più grande testimonianza del suo talento è il fatto che ancora oggi gli astronauti e cosmonauti di tutto il mondo – compresa la nostra Samantha Cristoforetti e, prossimamente, Paolo Nespoli – vanno nello spazio usando un razzo che è un’evoluzione dell’R-7 di Korolev di quasi sessant’anni fa.
Tratto dall’Almanacco dello Spazio.
Korolev a 32 anni. |
Da giovane studia aeronautica a Mosca sotto la guida di Andrei Tupolev, si qualifica come pilota e lancia, nel 1933, il primo razzo a propellente liquido in Unione Sovietica. Ma durante una delle tante purghe ordinate da Stalin viene arrestato e condannato ingiustamente a dieci anni di lavori forzati nel gulag di Kolyma, dove perde tutti i denti e si frattura la mandibola.
Viene trasferito in un carcere a Mosca dopo cinque mesi di gulag e passa cinque anni a lavorare a progetti di aerei e razzi insieme ad altri ingegneri incarcerati. Nel 1945, però, viene nominato colonnello dell’Armata Rossa e viene spedito in Germania: una svolta repentina dovuta al fatto che servono le sue competenze per decifrare i razzi V2 tedeschi che l’esercito russo è riuscito a catturare (il loro progettista, Wernher Von Braun, si è arreso agli americani, che se lo tengono stretto).
Korolev impara in fretta: è suo il primo missile balistico intercontinentale al mondo, l’R-7; sono opera sua il primo satellite artificiale (lo Sputnik 1), il primo cane nello spazio, il primo uomo nello spazio, il primo equipaggio multiplo, la prima donna nello spazio, la prima passeggiata spaziale, il primo satellite spia sovietico, le prime sonde lunari e interplanetarie e il gigantesco razzo N-1 concepito per portare un russo sulla Luna. Tutto progettato e costruito con risorse tecniche ed economiche ridotte all’osso, in un regime di segretezza e paranoia politica senza pari.
Il suo nome resterà un segreto di stato fino alla sua morte nel 1966, a 59 anni, dovuta alle inattese complicazioni di un intervento chirurgico di routine; prima di allora verrà sempre citato ufficialmente soltanto come il Progettista Capo. La più grande testimonianza del suo talento è il fatto che ancora oggi gli astronauti e cosmonauti di tutto il mondo – compresa la nostra Samantha Cristoforetti e, prossimamente, Paolo Nespoli – vanno nello spazio usando un razzo che è un’evoluzione dell’R-7 di Korolev di quasi sessant’anni fa.
Tratto dall’Almanacco dello Spazio.
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2016/01/03
Quant’è grande il carattere del celebre titolo “LUNA” del Messaggero?
di Paolo Attivissimo
La prima pagina mostrata qui accanto è molto famosa: è quella del Messaggero del 21 luglio 1969, giorno dello sbarco sulla Luna di Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Molti la conoscono perché contiene un falso storico (la foto del “primo passo” lunare, che in realtà è un’impronta di un normale stivale terrestre, completamente diversa da quella lasciata dagli scarponi usati sulla Luna dagli astronauti), ma ha anche un’altra particolarità: l’enorme dimensione dei caratteri della parola “LUNA”.
Dovrebbe essere un record mondiale, e oltretutto un record quasi impossibile da battere, visto che è difficile che ci siano altri eventi storici meritevoli di titoli così grandi e al tempo stesso riassumibili in quattro lettere o meno.
Eppure quando si cercano online informazioni su quale sia stato il più grande corpo tipografico mai usato in una prima pagina di giornale non compare questa prima pagina del Messaggero ma di solito viene citata invece quella del New York Times dedicata allo stesso evento. Il 21 luglio 1969 il NYT titolò infatti “MEN WALK ON MOON”, come potete vedere per esempio qui o qui oppure qui accanto, usando un carattere alto 96 punti.
Il carattere del Messaggero è decisamente più grande, ma di quanto, in termini tipografici? Non ho a disposizione una copia del Times per misurarne direttamente le dimensioni, ma un lettore collezionista di documenti dedicati allo spazio, Gianluca Atti, mi ha gentilmente misurato la propria copia del Messaggero e ha ottenuto un dato preciso: le lettere della parola “LUNA” sono alte 26,5 centimetri, come si può vedere nella fotografia seguente.
Definire il corpo tipografico equivalente, però, non è facile, perché non esiste una definizione unica di questa unità di misura: Wikipedia ne delinea bene la storia e le variazioni.
Se si considera che la pagina del Times risale al 1969 e fu stampata negli Stati Uniti, quando era in uso il punto tipografico Johnson, pari a circa 0,35146 mm, allora un corpo 96 equivale a 33,74 mm. Se il punto tipografico di riferimento è invece il moderno PostScript, la differenza è minima, dato che questo punto è pari a circa 0,3527 mm.
Con queste premesse, il titolo del Messaggero sarebbe in corpo Johnson 754 o in corpo PostScript 751. Di certo è quasi otto volte più grande di quello, citatissimo, del Times.
È importante tutto questo? Assolutamente no, anche se sarebbe bello vedere riconosciuto il primato del giornale italiano: semplicemente oggi mi hanno rivolto via Twitter una domanda sulle dimensioni del titolo del Messaggero e il nerd che c’è in me non ha saputo resistere, per cui ho riassunto qui i risultati della mia ricerca.
La prima pagina mostrata qui accanto è molto famosa: è quella del Messaggero del 21 luglio 1969, giorno dello sbarco sulla Luna di Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Molti la conoscono perché contiene un falso storico (la foto del “primo passo” lunare, che in realtà è un’impronta di un normale stivale terrestre, completamente diversa da quella lasciata dagli scarponi usati sulla Luna dagli astronauti), ma ha anche un’altra particolarità: l’enorme dimensione dei caratteri della parola “LUNA”.
Dovrebbe essere un record mondiale, e oltretutto un record quasi impossibile da battere, visto che è difficile che ci siano altri eventi storici meritevoli di titoli così grandi e al tempo stesso riassumibili in quattro lettere o meno.
Eppure quando si cercano online informazioni su quale sia stato il più grande corpo tipografico mai usato in una prima pagina di giornale non compare questa prima pagina del Messaggero ma di solito viene citata invece quella del New York Times dedicata allo stesso evento. Il 21 luglio 1969 il NYT titolò infatti “MEN WALK ON MOON”, come potete vedere per esempio qui o qui oppure qui accanto, usando un carattere alto 96 punti.
Il carattere del Messaggero è decisamente più grande, ma di quanto, in termini tipografici? Non ho a disposizione una copia del Times per misurarne direttamente le dimensioni, ma un lettore collezionista di documenti dedicati allo spazio, Gianluca Atti, mi ha gentilmente misurato la propria copia del Messaggero e ha ottenuto un dato preciso: le lettere della parola “LUNA” sono alte 26,5 centimetri, come si può vedere nella fotografia seguente.
Definire il corpo tipografico equivalente, però, non è facile, perché non esiste una definizione unica di questa unità di misura: Wikipedia ne delinea bene la storia e le variazioni.
Se si considera che la pagina del Times risale al 1969 e fu stampata negli Stati Uniti, quando era in uso il punto tipografico Johnson, pari a circa 0,35146 mm, allora un corpo 96 equivale a 33,74 mm. Se il punto tipografico di riferimento è invece il moderno PostScript, la differenza è minima, dato che questo punto è pari a circa 0,3527 mm.
Con queste premesse, il titolo del Messaggero sarebbe in corpo Johnson 754 o in corpo PostScript 751. Di certo è quasi otto volte più grande di quello, citatissimo, del Times.
È importante tutto questo? Assolutamente no, anche se sarebbe bello vedere riconosciuto il primato del giornale italiano: semplicemente oggi mi hanno rivolto via Twitter una domanda sulle dimensioni del titolo del Messaggero e il nerd che c’è in me non ha saputo resistere, per cui ho riassunto qui i risultati della mia ricerca.
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